Banca & Arte in Svizzera 4. BSI

Prendere o lasciare, ma c’è un angolo di cedro. Basterebbe descrivere questa foto per capire tutto: la nuova sede BSI di Lugano s’impone senza compromessi sulla città e, in un certo senso, sulla propria storia. Completamente ridisegnata da Giampiero Camponovo, è una roccaforte di travertino verso il futuroo pensata come uno scrigno minimale che completa l’isolato con la sede storica di Palazzo Riva e quella progettata da Giancarlo Durisch negli anni Sessanta. Non a tutti piacerà e tra i figli di coloro che hanno mal digerito il secondo edificio, non saranno pochi a non comprendere il terzo. Ma il lavoro di Camponovo è accurato e ineccepibile perché bisogna ammettere che un vero dialogo con la sede storica era di fatto impossibile: meglio allora quell’effetto “astronave caduta dal cielo”, completamente estranea al contesto, ma per questo più sincera del tentativo di Durisch che un dialogo, non solo cromatico, aveva cercato. Nel perfetto parallelepipedo, le facciate sono aperte da grandi finestre che ne svelano la naturale propensione al comunicare: l’ingresso è una sorta di banchina di trasmissione tra la città e la riva, un lungo corridoio a prospettiva infinita, sottolineato dall’intervento di Daniel Buren. Salendo, il corridoio si sposta al centro del palazzo, il collegamento si ripete ad ogni piano, come fossero ponti sovrapposti di una nave: tutti aperti ai lati sulle stanze e al fondo verso il lago, anzi no verso il cedro. Sì perché i suggerimenti che ci dà questa foto non sono finiti, e non mi riferisco al cielo terso, spazzato dai venti alpestri, che domina su Lugano. C’è una presenza solo apparentemente estranea alla banca ed è il grande cedro, maestoso davanti all’edificio. Qui se ne nota solo l’ombra, ma nel palazzo è visione che ricorre e rassicura, nella sua duplice funzione di polena e ormeggio. Ecco il contesto in cui si gioca il cuore della nuova strategia della BSI Art Collection, fortemente voluta dal presidente della direzione generale Alfredo Gysi e affidata alla curatela di Luca Cerizza. In programma c’è una caratterizzazione di tutte le sedi della banca che va ben oltre il semplice arredamento artistico ed è frutto di progetti studiati ad hoc, dove trovano il loro posto le opere d’arte contemporanea già acquisite o appositamente commissionate dalla Banca, da Mario Merz e Giulio Paolini ad Alighiero Boetti e Simon Starling, vincitore del prestigioso Turner Prize 2005. Il progetto per la sede di Lugano, “all Around all”, non poteva che fare da testa di ponte all’intero programma di interventi e il risultato è un’opera d’arte ambientale a otto mani da scoprire.

Non solo Lugano. Ad ogni sede la sua arte

Il progetto BSI Art Collection è in corso in tutte le sedi della Banca e non solo svizzere. Nella maggior parte dei casi si tratta di vere e proprie personali, in cui ammirare decine di opere di un artista, appartenenti a nuclei omogenei o rappresentative di un percorso artistico: è ciò che già avviene con Giulio Paolini a Milano, con il fotografo John Chamberlain a Losanna e a Chiasso, dove dominano gli splendidi dipinti e acquetinte di Alex Katz (nella foto un dettaglio di “Birthday Party”). In due casi, antesignani del progetto luganese, si è optato invece per un intervento appositamente realizzato in loco dall’artista: i dipinti murali di Peter Halley a Torino e le istallazioni di Daniel Roth a Bellinzona. Nelle altre sedi il dialogo si fa a più voci e se a Roma disegni e sculture di Fausto Melotti dialogano con quelle di Massimo Bartolini, a Bologna “Identità e ripetizione” è il tema che accomuna opere di Paolini, Daniel Buren e Alighiero Boetti. A Ginevra si sta approntando in questi mesi una raccolta collettiva sul tema del “Viaggio e dell’incontro” mentre un legame tutto particolare lega lo scultore Tony Cragg alla BSI, che non solo ha festeggiato i 125 anni di presenza a Locarno regalando una sua grande opera alla città, ma ne ha acquistata una per il cavedio di Palazzo Riva a Lugano e ha dedicato alle opere dell’artista la sede di Zurigo.

PT – Daniel Buren. Un cannocchiale tra terra e acqua

La prima istallazione offre il meglio di sé al passante di via degli Albrizzi che, in un continuo mutare di trasparenze, percezioni colorate e visioni indiscrete, qui negate là concesse, scorrerà l’iride delle vetrine bicromate, andando o venendo dal lago. Entrando, oltre la grande porta d’acciaio satinato, il cliente cercherà le casse nascoste dentro le feritoie che si intravedono appena sulla destra; per arrivarci non dovrà far altro che lasciarsi andare al vero elemento d’attrazione: il lungo sentiero di archi d’alluminio a strisce bianche e nere, che si susseguono a distanza regolare a perdita d’occhio. Nella volontà dell’artista, l’ultimo arco avrebbe dovuto cadere fuori dal palazzo, a sottolineare la volontà di un intervento che vuole mettere in continua relazione lo spazio esterno con quello interno e viceversa. Ma è già ora di salire al terzo piano, alle sale per la ricezione.

3° P – Robert Barry. Lettere d’alluminio

«In fondo quest’opera è sulla vita reale». Trenta parole composte da lettere in alluminio satinato alte 30 cm, incollate sui muri del corridoio e delle sale. Tutto qui, o quasi. Perché ciò che crea l’opera d’arte è lo spettatore: colui che dovrà soffermarsi a pensare quanta ricchezza di significato, individuale e collettivo, la nostra esperienza condensa in parole come “Tradizione” o “Aspettare”. Per questo Barry può dire del proprio lavoro: «Non so dove la parte concettuale finisca e dove inizi quella esperenziale, o viceversa». È arte concettuale, arte ambientale ma anche antropologica, perché vive dei significati che l’autore e il visitatore danno a quelle parole.

4° P – John Armleder. L’incanto sta nel segno

Tre gli elementi: il pallino, colorato nella sala d’attesa, monocromo nel corridoio, gli esili ricordi geometrici di una Bauhaus corretta in toni pastello dipinti sul muro delle stanze e, a fronteggiarli, quadri optical a tinte forti e lucide. Su tutti la vera protagonista è la luce che, col passare delle ore, non solo fa colorare in modo diverso gli interventi pittorici, eseguiti con vernice iridescente, ma regala l’effetto sorprendente del corridoio che, grazie alla breve differenza cromatica tra sfondo e pois, si presta a un equivoco di pieni e vuoti, lasciando allo spettatore la sola certezza del pavimento di legno; o del cedro ben piantato oltre il vetro.

5° P – Liam Gillick. Tinte unite di forme solide

Nella sala d’aspetto due sculture a parete: pannelli smaltati in tonalità degradanti di rosso, la prima, e spesse lamelle in alluminio affiancate fitte, la seconda. Tra loro, grazie alla luce che sbatte diretta, scambi continui di raggi rosati. Nel corridoio, una sfilata regolare di rielaborazioni grafiche, nero su nero anticipa il libro sull’arte che Gillick sta scrivendo. Nelle sale, sulla parete di fondo, campeggiano grandi dipinti geometrici che s’impongono a tinte unite e colori decisi. Su tutto, piove il chiacchiericcio e il tintinnio delle posate: i tavoli apparecchiati ci invitano a sostare, pensando alle continue sollecitazioni ricevute da occhi, mente e memoria in questo viaggio.

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